Mensa

di Giuseppe Schirò

 

Secondo la comune accezione, recepita anche dal diritto canonico vigente sino al Concilio Vaticano II, la Mensa vescovile è il complesso dei beni ecclesiastici destinati al sostentamento del Vescovo e dei suoi familiari. Le vicende della formazione e della gestione di tale complesso di beni sono legate a quelle che si riferiscono alla evoluzione del beneficio ecclesiastico. Questo trae origine dall'insieme dei beni conferiti alla chiesa cattedrale e dei quali il Vescovo, quale capo del clero, era amministratore. L'insieme di questo patrimonio doveva servire alla beneficenza, al mantenimento del clero, ai bisogni in genere della comunità, agli edifici di culto ed all'abitazione. Secondo le dimensioni dell'Ente il Vescovo era assistito da diaconi e da ufficiali, necessari per il compimento degli atti pubblici e privati. Col passare dei secoli la massa comune originaria subisce un processo di diversificazione e si comincia a separare quella porzione destinata al mantenimento esclusivo del Vescovo, distinguendola da quella destinata al clero o ad altre finalità. Tale processo non si avvera dappertutto in modo uniforme e contemporaneo. Ma all'epoca in cui nasce la Mensa arcivescovile di Monreale questa evoluzione è già compiuta e consolidata.

L'origine e la costituzione della Mensa arcivescovile di Monreale si deve interamente ed esclusivamente al re Guglielmo II il Normanno, fondatore della Abbazia benedettina, del Duomo e dell'Arcivescovato di Monreale, che egli volle per una sua precisa volontà politica, superando le difficoltà derivanti dalla presenza, a breve distanza, dell'Arcivescovato di Palermo, la capitale del Regno.

La decisione di Guglielmo II, che nei documenti appare circonfusa da motivazioni religiose, si realizza con l'erezione di uno dei più bei monumenti d'arte: il Duomo di S. Maria La Nuova con l'annesso monastero dei benedettini, dotato del meraviglioso chiostro, e con un arricchimento così straordinario di questa sua fondazione da far chiedere ai suoi lontani biografi se "Egli havesse voluto che questa degna sposa di Cristo (la chiesa) comparisse per lui o più bella o più ricca". All'abate egli fa conferire la dignità e la funzione di Arcivescovo, con giurisdizione su un esteso territorio nella Sicilia occidentale ed inoltre la sede viene dichiarata metropolitica nei confronti di Catania e di Siracusa. All'Arcivescovo egli assegna anche i poteri civili e giudiziari in modo che la sede monrealese diviene, e per i privilegi e per le ricchezze, una delle sedi più ricche e prestigiose d'Europa. I documenti relativi alle concessioni esistono ancora in originale e fanno parte del famoso Tabulario di S. Maria La Nuova, che adesso si conserva presso la Biblioteca Regionale Centrale di Palermo. Alcuni di essi sono stati pubblicati e lo stesso Tabulario è stato oggetto di alcune monografie.

All'origine, destinatario delle donazioni di Guglielmo è il Monastero dei benedettini, fondato diligenti cura et multa devotione dal re Guglielmo II; ad utilitatem et profectum eiusdem Monasterii et fratrum ibidem Deo servientium;… ad perpetuam eius securitatem et pacem. In altre parole, affinché esso godesse della libertà necessaria per lo svolgimento dei suoi compiti religiosi e politico-sociali e, per suo "commodo", il Re vuole sempre ampliare et dilatare ac utilitatibus eius intendere. Dal 1183 in poi, essendo stato ormai istituito l'Arcivescovado le donazioni, proseguono in favore di questo, al suo incrementum et commodum, e Guglielmo ripete in ogni documento gli stessi termini, senza soluzione di continuità tra Monastero ed Arcivescovato. Dunque il Re non fa distinzione fra i due enti, che per lui sono sempre una stessa cosa, cioè la "Chiesa" da lui fondata. La distinzione verrà molto tempo dopo, quando, per una disposizione di Gregorio IX, nel 1234 i benedettini saranno privati della facoltà di eleggere l'Abate Arcivescovo e l'Arcivescovo quasi mai sarà più un benedettino. La morte di Guglielmo II, avvenuta nel 1189, quando egli aveva appena 36 anni; pone fine alle donazioni ed alle concessioni di esenzioni e di privilegi. Da allora si avrà solo lo sforzo di conservare i possessi e impedire dispersioni. Re Guglielmo non aveva però precisato limiti e modi per l'impiego delle cospicue rendite costituite, ma evidentemente la loro finalità era chiaramente indicata nell'utilità della "Chiesa" da lui fondata, senza però che venisse messo in discussione il fatto che questa Chiesa era di regio patronato e che il Sovrano, munito dei poteri della Legazia apostolica, ne potesse disporre.

L'archivio della Mensa, detto qui Fondo Mensa, non riguarda l'esercizio dei poteri ecclesiastici, civili e giudiziari dell'Arcivescovo, dei quali si occupano gli altri Fondi dell'Archivio storico dell'Arcivescovato, ma riguarda solo la gestione patrimoniale e finanziaria dei beni immobiliari assegnati da Guglielmo II, cioè dei 72 feudi con i conseguenti diritti angarici, quali erano riconosciuti o praticati dalle leggi o dalle usanze feudali dell'epoca. Intendo tracciare brevemente le vicende storico giuridiche della Mensa, non per fare sfoggio di erudizione, ma per mettere lo studioso nelle migliori condizioni per l'utilizzazione del Fondo stesso e per offrire stimoli e prospettive per ulteriori ricerche ed approfondimenti. Ma, certamente, la Mensa arcivescovile di Monreale meriterebbe uno studio monografico di assai più ampie proporzioni. I settantadue feudi assegnati da Guglielmo II si dividevano secondo le Camperie alle quali erano soggetti. La "camperia" consisteva nella giurisdizione che gli Arcivescovi concedevano "in gabella" cioè in un corrispettivo annuo, a un Campiere o Baglivo, il quale esercitava la vigilanza ed aveva il potere di catturare gli animali che pascolavano abusivamente obbligando i proprietari ad indennizzare per gli eventuali danni. Le Camperie erano sei: 1- Monreale, con 15 feudi (Caputo, Ambleri, Moharda, Vallecorta, Renda, Cannavera, Giacalone, Regalicelsi, Suvarelli, Sagana, Giardinello, Montelepre, Mandra di Mezzo, Platti, Mirto o Sardo); 2- Piana dei Greci, con 2 feudi (Merco e Dandigli); 3- Balletto con 27 feudi (Casale di Galletti, Ginestra, Traversa, Fallamonica, Mortille, Chiusa, Fegotto, Dammusi, Giancaldara o Billieme, Giambasso, Balletto, Picciano, Cerasa, Argivocale, Pojora, Malvello, Tagliavia, Busambra, Ficuzza, Cappilleri, Lupo, Buxesi, Cannavata, Guadalame e Scala della Femmina, Pietra Lunga, Perciata, Ravanusa metà); 4- Alcamo, con 13 feudi (Cammuca, Fargione, Desisa, Stretto, Sichechi, Ferracino, Casal del Conte, Modica, Scalilla, Cademusa, Ursino, Cuti, Mazzaporro; oltre metà di Ravanusa). 5- Calatrasi con 6 feudi (Calatali, Carcia, Balata, Rocche di Calatrasi con il Castello, Sparagia e Sparagiotta, Montagnola);6- Bisacquino, con 9 feudi (Bruca, Tarucco, Roselle, Montagna di Cervi, Gavagno, Gulfo, Gibelicanna, Raja, San Blasi o Terrusio). Tutti i feudi, a loro volta, si dividono in più classi e cioè i feudi nobili, cioè quelli che non -essendo stati concessi a nessuno, restano nel pieno dominio della Chiesa e sono nella libera amministrazione degli Arcivescovi. Sono i 10 seguenti: Moharda, Mandria di Mezzo, Platti, Fegotto, Giambasso, Casal del Conte, Montagnola, Ficuzza, Raja, Gibilcanna.

Altri sono detti censionali, cioè concessi a censo annuoe riconoscono alla Chiesa un canone pecuniario annuo. Sono i 18 seguenti: Renda, Giacalone, Cannavera, Sagana, Suvarelli, Giardinello, Montelepre, Mirto e Sardo, Billieme e Giancaldara, Mortille, Chiusa, Traversa, Ginestra, Casalotto di Galletti, Guadalame e Scala della Femmina, Sparagia, Montagna di Cervi, Gulfo o Ficarazze. Altri sono concessi a comune e per decime, altri sono concessi in parte senz'altra ricognizione che del Foro, in parte pagano decime. Questi sono 5: Ambleri, Caputo, Vallecorta, Merco, Dandigli.

La maggior parte dei feudi erano concessi a masserie, una concessione simile a quella di enfiteusi perpetua, ma con patti ed oneri molto diversi dalle ordinarie concessioni enfiteutiche. Il massarioto infatti pagava una quantità fissa annua di frumento o di orzo, indipendentemente della coltivazione e dal suo esito, più altri oneri, come quello di Segrezia, dovuto quasi per coprire le spese d'amministrazione, ed altri oneri come una gallina all'anno, oltre gli oneri variabili derivanti dall'esito della coltivazione. Le masserie avevano estensioni diverse da 25 a 100 aratati. L'aratato corrispondeva in genere a 25 salme di terra. La masseria era la forma gestionale più dinamica. I feudi concessi a masseria sono 39, cioè più della metà, distribuiti nelle cinque Procure di Monreale, del Balletto (della quale fa parte la Procura della Piana, istituita nel '700), della Scala, di Bisacquino e d'Alcamo. Si chiamano Procure quei Magazzini costruiti in diverse parti dell'Arcivescovato allo scopo di facilitare ai massarioti l'apporto del frumento. Esse costituiranno i centri di riferimento della raccolta dei cespiti anche in denaro. Non tutte le Procure esigono la stessa quantità, né tutti i feudi e masserie ad esse assegnate pagano nel medesimo modo. Tutte le Masserie però, in ogni ripartimento di dette Procure, sono conformi nello jus pascendi, che ognuna gode in comune nell'altra, ma solo ovviamente, nelle terre vacanti, cioè non seminate e nello strasatto dello stesso feudo e in quella qualità e quantità di bestiame che per ogni aratato è concessa. L'erbaggiere del feudo gode parimenti in comune del pascolo in tutte le terre vacanti e nello strasatto. Lo strasatto è una porzione di terra ricavata ordinariamente in ogni feudo e riservata alla Chiesa e serve affinché il Gabelloto, a cui si affittava l'erba e dello strasatto stesso e delle terre vacanti di ogni masseria, avesse un luogo fisso tutto suo per farvi il marcato del bestiame ed il restante per poterselo seminare o tenerlo ad erba a sua volontà. I marcati erano quelle terre destinate a mandria ed a rinchiudervi il bestiame. I massarioti hanno libere dal vincolo dello strasatto quelle sole terre che seminano o che sono chiuse per loro particolare uso sulle quali pagano un censo pecuniario alla Chiesa. Gli erbaggieri possono custodire sino a un certo tempo l'erba degli strasatti per farla crescere e durante questo tempo non vi possono far pascolare gli animali. Se il padrone della masseria destina a fieno un pezzo di terra, secondo i bisogni della sua masseria, nessun vi può far pascolare gli animali, ma passato il 15 marzo l'erbaggiere misura l'erba ed il massarioto è obbligato a pagare il prezzo di quell'erba all'erbaggiere in ragione di onza 1 per salma. I padroni delle masserie non possono far pascolare ogni sorta di animali come maiali, pecore ed altri, che sono vietati, né in quel numero che vorranno senza accordarsene con l'erbaggiere della Chiesa. Possono solo tenervi al pascolo gratuitamente tutti i buoi e i "Genconi della torta" (i tori giovani appena castrati e non ancora immessi nel lavoro) nella misura in cui sono necessari per lavorare le terre di quella masseria. Possono tenersi anche altre bestie come cavalli, vacche, secondo l'esigenze della masseria e comunque d'accordo con l'erbaggiere. E' obbligatorio macinare il frumento esclusivamente nei mulini dell'Arcivescovato. Nella Procura di Monreale l'unico feudo concesso a masseria è quello di Realcelsi. In quella del Balletto sono concessi a masseria Ravanusa, Calatalì, Garcia, Balata, Rocche di Calatrasi, Malvello o Galiello, Poiore, Pietralunga o Roccaccio Rosso, Argivocale, Busambra o Casale, Lupo, Cappellieri, Busesi, Cannavata, Perciata. Nella procura della Scala erano concessi a masseria i feudi di Cerasa, Piggiano, Balletto, Dammusi, Fallamonica. Nella procura di Bisacquino Bruca, Tarucco, Rosselle, Galvano, San Biagio o Terrusio. In quelle di Alcamo Cammuca, Fargione, Desisa, Ferricino, Sichechi, Stretto, Mazzaporro, Cuti, 0rsino, Cardemusa, Scalilli, Modica. In totale l'estensione dei 72 feudi era di salme 27.590 cioè di circa 50.000 ettari di cui 21.000 coltivabili ed il resto incoltivabili perché costituiti da terreni rocciosi, acquitrinosi o boschi. Di tutta la superficie, salme 16.285 sono distribuite in 235 masserie di 400 aratati ciascuna. Gli strasatti sono salme 2.398, le terre nobili salme 2.442, le terre censite oltre le chiuse contenute nelle masserie salme 4.843, le terre concesse a decime salme 972, le terre concesse a comuni salme 650. Inoltre, apparteneva alla Mensa la tonnara di Isola delle Femmine, con relativi magazzini e pertinenze nella costa di Sferracavallo. La tonnara, ordinariamente era data a censo perpetuo. Anche la tonnara di Isola delle Femmine era stata concessa da re Guglielmo II. Per ragguagli più ampi si possono consultare le "Notizie dello stato antico e moderno dell'arcivescovato di Monreale" dell'Abate Michele Del Giudice del 1702 ripubblicate in fascicolo a parte nel 1849.

Questa situazione è quella che appare nel periodo migliore della gestione e che avrà il suo apice sotto il governo dell'arcivescovo Francesco Testa (1754-1773). Poiché l'Arcivescovado di Monreale era di regio patronato, come del resto altre Diocesi e Abbazie siciliane, il Re in varie occasioni disponeva delle ispezioni allo scopo di verificare e controllare la situazione della fondazione sotto ogni punto di vista, attraverso "Regi visitatori" che avevano ampi poteri, per espressa delega e che emanavano decreti aventi lo scopo di mantenere o ricondurre la gestione di queste istituzioni nell'ambito della politica ecclesiastica del sovrano. La prima visita regia nella Diocesi di Monreale è quella effettuata da Pietro Pujades nel 1515, della quale però non ci sono pervenuti gli atti. La seconda visita viene effettuata durante il governo dell'arcivescovo card. Alessandro Farnese, nel 1542, da mons. Francesco Vento. Da quel momento si ha una conoscenza piuttosto precisa della situazione finanziaria e dell'impiego delle entrate. Dagli atti risultano 19 i feudi dati a censo, con entrate pari ad onze 341.2 e 46 quelli arrendati, con un reddito di onze 2911.13, compresi gli interessi monetari e i carnaggi vaccini e pecorini. Gli introiti di frumenti sono pari a salme 3.420 e tumuli 8. Gli introiti degli orzi pari a salme 535. Gli introiti censuali sopra fondaci, mulini, mirtilli, giardini, vigne, case, onze 146.27. Gli introiti di diritti di gabelle o di arrendamenti provenienti da case, fondaci, mulini, vigne, oliveti e camperie, onze 917.8.10. In totale in introiti monetari annuali di onze 4316.20, frumento salme 4031.8, orzo salme 535, formaggio vaccino cantari 5. Gli esiti sono dovuti a salari per diverse persone cioè agli ufficiali per onze 413; per il servizio della chiesa, il decoro del culto e la fabbrica, per onze 363.12; per elemosine da erogare, onze 34.20; per spese varie onze 370.16. In totale onze 1181.18, in frumento salme 62 ed in orzo salme 274. Dedotte dunque le spese e gli oneri, il reddito netto era di onze 3135.2.10, più salme 3.969 di frumento, 261 salme di orzo e 5 cantari di formaggio. La terza visita, effettuata nel 1552 da mons. Giacomo Arnedo, ci mostra una leggera crescita delle entrate ed un forte aumento delle spese: gli introiti dei feudi sono onze 3.732, dei mulini 192, dei fondaci e delle strutture ricettive 28, dei diritti censuali 62, dei diritti di gabella, 678. Per un totale di onze 4.692 ed inoltre salme 3.695 di frumento e 550 di orzo. Gli esiti ammontano ad onze 2.852, più 3.583 salme di frumento e 300 salme di orzo. La buona gestione dell'arcivescovo Ludovico I Torres è evidenziata nella quinta visita, effettuata nel 1583 da mons. Francesco Del Pozzo. Gli introiti monetari sono di onze 8.672 ed inoltre salme 4.822 di frumento e 726 d'orzo. Gli esiti sono limitati a onze 793. Ancora migliore è il quadro della sesta visita, effettuata nel 1604 da mons. Filippo Giordi, durante il governo dell'arcivescovo card. Ludovico II Torres, uno dei più importanti che Monreale abbia avuto. Gli introiti salgono a onze 16.750, ma gli esiti ascendono a onze 9.099. Sembra che questa situazione rispecchi il tipo di gestione dell'arcivescovo Ludovico II Torres il quale eseguì molti lavori sia nel Duomo, sia nel Palazzo arcivescovile. Infatti più di un secolo dopo, e precisamente nel 1730, gli introiti appaiono aumentati e gli esiti diminuiti come risulta da una relazione che ci dà anche l'idea del rapporto con le altre Chiese siciliane.

Entrate-uscite-netto: Palermo (9185 2707 6478), Messina (2080 1117 963), Monreale (19494 2461 17033), Agrigento (6033 1023 5009), Cefalù (3044 1130 1914), Patti (3320 860 2459), Catania (8307 3187 5119), Siracusa (1714 516 1197), Mazzara (3973 1563 2410), Archimandritato Messina (1934 404 1529). Assai interessanti poi sono gli atti della settima ed ultima visita, effettuata nel 1742 da mons. Gian Angelo De Ciocchis, pubblicati a Palermo nel 1842 perché precedono di poco l'epoca d'oro del Testa. Gli introiti ammontano ad onze 21.147, le uscite a onze 11.928 con un netto di onze 9.219, cui sono da sottrarre onze 2.656 per spese obbligatorie a carico dell'Arcivescovo (elemosine, celebrazioni feste, spese legali, etc.). Nel 1775, cioè appena due anni dopo la morte del Testa, la situazione presentava un introito di onze 29.034 ed un esito di onze 16.287 con un netto di onze 12.746. Sulla situazione finanziaria della Mensa a quest'epoca è utile dare uno sguardo al documento pubblicato dal Millunzi nel 1915, sotto il n.1, dove però stranamente, non figura la pensione Asturia a carico della Mensa.

Infatti, sulla Mensa arcivescovile, per volere dei Re di Sicilia, gravavano non solo gli oneri fiscali propri di tutti gli altri benefici ecclesiastici e quelli che deliberava il Parlamento siciliano, come le Tande regie ed i donativi ordinarii e straordinari, ma anche altri oneri che spesso si allontanavano dalle finalità originarie, per le quali però era richiesto l'assenso pontificio. Tra queste è da segnalare quella stabilita con due Bolle di Benedetto XIV esecutoriate in Sicilia l'una il 21 luglio e l'altra il 5 agosto del 1753 con cui viene imposto l'onere di pagare a Don Carlo di Borbone, poi divenuto principe delle Asturie, due pensioni per l'ammontare complessivo di onze 4877.5.12 all'anno. Quando poi questo principe diviene Re di Spagna col nome di Carlo IV non rinunzia alle pensioni, ma dispone che fossero versate nella Cassa palermitana delle elemosine elargite dal Re. Alla sua morte, re Ferdinando I, con decreto del 18 giugno 1819, dispone che dette pensioni ricadessero nella Mensa arcivescovile. Ma invano, perché la voce "Pensioni Asturie" continuerà sempre a gravare a carico della Mensa superando ogni disposizione regia ed ogni tentativo dei vari Arcivescovi di liberarsi da un onere, che ancora nel 1925 si quantificava in £.50.000 (pari a circa £.40.000.000 del 1989) e che ora veniva considerato di natura pensionaria ora di natura regalistica, con una polemica che non terminerà mai. Poco dopo la morte del Testa si avvera un fatto traumatico che imprime una svolta decisamente negativa alle vicende della Mensa. Sotto l'influsso delle teorie giurisdizionalistiche propugnate dal Tanucci, il re Ferdinando III di Borbone, allegando motivi di convenienza e di utilità, chiede al papa Clemente XIV di sopprimere l'Archidiocesi di Monreale, perché causa di continui contrasti con quella di Palermo, di restituire alle Diocesi originarie i territori a suo tempo smembrati da re Guglielmo II e di impiegare le relative rendite nel modo più conveniente per le esigenze del Regno. La morte di Clemente XIV non interrompe il progetto del Re, perché il successore, Pio VI, il 7 luglio 1775, firma il Breve Apostolici suscepti regiminis, con cui il Papa non sopprime, ma unisce per la parte spirituale l'Arcivescovato di Monreale a quello di Palermo, lasciando aeque principaliter distinte le due sedi e le due chiese cattedrali, ciascuna con i suoi originari diritti, ma sotto un solo titolare.

I privilegi baronali, dato che il Papa non ne parla, dovevano intendersi decaduti, mentre per quanto riguarda la Mensa egli dispone che essa resti amministrata dal Presule titolare delle due sedi, il quale prelevando per sé un equo assegno, non inferiore a mille scudi annui per l'onere aggiunto e soddisfatti gli altri oneri, versi il resto dei redditi all'erario regio affinché fosse mantenuta e incrementata una flotta bellica di triremi per la lotta contro i nemici del nome cristiano. E ciò in modo tassativo, tanto che se in futuro si fosse presentata la necessità di convertirli in tutto o in parte ad altri usi se ne dovesse chiedere autorizzazione al Papa. Che le disposizioni del Breve pontificio non incontrassero il pieno gradimento della Corte napoletana ne è prova il fatto che l'esecutoria viene concessa solo a due anni di distanza, il 5 luglio 1777 e con la clausola vanificatoria "in quanto essa non si opponga alla regalia e alle leggi e costituzioni del Regno e agli ordini generali e particolari del Re''. In realtà, da quel momento il Re dispone della Mensa a sua discrezione, assegna all'Arcivescovo di Palermo i mille scudi annui, incoraggia l'enfiteusi perpetua dei feudi e la conversione in moneta delle entrate in natura, affida l'amministrazione prima ad una Giunta, presieduta dall'Arcivescovo e poi la trasferisce nell'amministrazione del Tribunale del Real Patrimonio. I feudi e la città di Monreale vengono indemaniati, ma della flotta, pur avendo dato in un primo tempo ordine per la costruzione, non si fa più parola. Il Regio Patrimonio tiene l'amministrazione dal 1779 al 1802, quando, a richiesta dello stesso re Ferdinando, che era sollecitato da pressioni politiche, Pio VII emana la Bolla Imbecillitas humanae mentis del 12 maggio 1802 con la quale l'Arcivescovado di Monreale viene ripristinato in tutta la sua interezza, compresi cioè i privilegi feudali, con esclusione della giurisdizione sulla chiesa di San Cataldo (S.Giovanni Eremiti) di Palermo, della città di Bronte e del monastero del Salvatore presso S. Marco in Messina. Pro dote vero Mensae archiepiscopalis sic restitutae ea omnia et singula bona quae ante illius nem praefatam constituta reperiebantur pariter et de novo Apostolica auctoritate perpetuo concedimus atque assignamus ita tamen ex illorum redditi bus detractis pro congrua decentique futuri et pro tempore existentis Archiepiscopi Montis Regalis substentatione annua summa quattuor millium unciarum monetae illius Regni nec non annua pensione mille unciarum huiusmodi super eiusdem fructibus, favore praedicti Philippi super dictarum ecclesia rum Panormitae et Montis Regalis Archiepiscopi dimittentis per nos una cum altera, ut infra dicemus, reservanda, reliquos superestantes redditus, detractis oneribus, ab eodem Archiepiscopo Montis Regalis personis ab ipso Ferdinando rege eiusque succesoribus deputatis seu deputandis, ad effectusillos in ususpios, ut antea, convertendi atque erogandi, persolvi volumus atque mandamus. Ciò significa chiaramente che la Mensa viene reintegrata in pieno, Amministratore è l'Arcivescovo che avrà facoltà di rappresentarla. Egli preleverà per sé una quota fissa di onze 4.000, detrarrà gli altri oneri inerenti alla natura stessa della Mensa, cioè tasse e imposte, spese d'amministrazione, spese per restauri del Duomo e dell'episcopio, spese di culto, tassa del Seminaristico, etc. e quello che sopravanzerà sarà elargito, sempre dallo stesso Arcivescovo a persone a ciò deputate o deputande dal Re, in opere di beneficenza (in ususpios) così come prima. La bolla viene esecutoriata lo stesso mese, il 26 marzo. Essa sarà d'ora in poi considerata il punto di riferimento giuridico amministrativo nella gestione della Mensa. Nel giugno dello stesso anno prende possesso della sede, Mensa compresa, il nuovo arcivescovo, mons. Mercurio Maria Teresi. Ma nel dicembre dello stesso anno egli, colpito da malattia, affida l'amministrazione della Mensa al marchese Ferreri, ex reggente della Giunta di Sicilia, che la tiene sin dopo la morte del Teresi, avvenuta il 7 aprile 1805.

Per la legge dello spoglio, la Mensa allora ricade in mano regia, fino a quando viene nominato nuovo Arcivescovo, Benedetto Balsamo con regio dispaccio del 9 novembre 1816. Appena un mese dopo l'esecutoria della Bolla di nomina, viene data al Balsamo la consegna dell'amministrazione della Mensa, con lo "Stato delle temporalità" compilato dal gran Camerario Leone, che aveva gestito la Mensa per vari anni durante il lungo periodo della vacanza della sede arcivescovile. Da questo momento, la natura giuridica della Mensa arcivescovile costituisce oggetto di discussioni e di polemiche interminabili. Sarebbe assai lungo seguire queste discussioni in ogni loro fase e fino all'estinzione dell'Ente ed il discorso sarebbe poco produttivo. Qui basta cogliere i temi di fondo e seguire le linee essenziali. Alla base vi era la contrapposizione tra la tesi delle Autorità statali che consideravano la Mensa una Amministrazione pubblica, pur se sui generis, dipendente dal Ministero delle Finanze e poi, dopo l'unità d'Italia, dal Ministero di Grazia, Giustizia e Culti, governata dalle leggi dello Stato, e la tesi ecclesiastica che avrebbe voluto considerare la Mensa come un beneficio ecclesiastico governato dalle leggi del diritto canonico. Tenuto conto dei principi culturali informatori della politica borbonica prima e di quella del Governo italiano poi, la tesi civile sarà in genere quella prevalente, mentre quella ecclesiastica non sempre troverà sostenitori ugualmente convinti e accesi, come il Millunzi (1859-1920). Non vi era neanche accordo se considerare le assegnazioni regie di natura regalistica, cioè graziose, e quindi suscettibili di riduzioni o cancellazioni in caso di necessità, o di natura pensionaria, aventi cioè carattere di maggiore stabilità, perché connesse con la facoltà del Re d'assegnare pensioni sulla terza parte degli avanzi (il terzo pensionabile, cui il Re d'Italia rinunzierà nel Concordato del 1929).

I contrasti saranno ora più ora meno chiari e vivaci i compromessi attuati nella ricerca di un modus operandi costituiranno la trama delle vicende della Mensa sino alla sua fine. Ma queste vicende sembrano un lento processo di disgregazione e di vanificazione che sarà reso più celere dall'intervento di fattori esterni quali la legislazione civile sui patrimoni ecclesiastici ed il deprezzamento costante e, a volte pauroso, della moneta che farà svanire i cespiti monetari fissi. La consegna al Balsamo di tutte le temporalità esclusi i diritti feudali aboliti nel 1812, avviene col citato Dispaccio del 9 novembre 1816, firmato dal Duca di Gualtieri, Segretario di Stato per l'Interno, che il 12 dello stesso mese lo comunica al marchese Ferreri, Ministro delle Finanze, che, a sua volta lo partecipa, per l'esecuzione al Gran Camerario del Dipartimento, Gaspare Leone. Questi, nel comunicare al Balsamo le superiori disposizioni per la consegna, detta alcuni criteri, cui il Balsamo deve attenersi, e lo informa di alcune grosse elargizioni fatte dal Governo a carico della Mensa, interpretando, in senso regalistico, la Bolla di Pio VII. Con successivo regio dispaccio del 31 gennaio 1817 viene precisato che il Balsamo assumerà la piena gestione alla fine dell'indizione in corso, che, come si sa, scadeva il 31 agosto, e che egli, trattenendo le 4.000 onze a lui assegnate, dovrà versare il rimanente dei frutti nel Banco di Palermo, per essere a disposizione del Re. Alla fine di ogni indizione l'Arcivescovo avrebbe dovuto presentare il rendiconto al Gran Camerario Leone o, in alternativa, versare ogni anno, in epoche determinate, nel Banco di Palermo, una somma fissa da concordare con la Regia Segreteria, dietro approvazione regia.

Poiché intanto bisognava provvedere ai restauri del Duomo, devastato dall'incendio del 1811, veniva istituita una Deputazione regia, presieduta dall'Arcivescovo e formata dai Gran Camerari Gaspare Leone e Vincenzo Ferreri, per amministrare le somme destinate al restauro e vigilare sulla esecuzione delle opere. Si riscopre così la finalità dei beni della Mensa. Per il reperimento delle somme, detta Deputazione avrebbe dovuto vendere dei censi al 5% per l'ammontare di onze 20.000, previste dal precedente regio Dispaccio del 2 maggio 1812, relativo al restauro. 0gni anno poi la Deputazione avrebbe dovuto dar conto al Gran Camerario Leone. Si deve alla fermezza ed all'abilità del Balsamo se i fondi furono reperiti con mutui, anziché con la vendita dei censi, che avrebbero impoverito il patrimonio della Mensa. La gestione del Balsamo offre un esempio perfetto di compromesso fra le due tesi sulla natura giuridica della Mensa. Le Autorità statali la consideravano regio Stabilimento, il Balsamo era un incaricato di percepire denaro regio e doveva attenersi al Regolamento apposito, pubblicato nel 1818. Tuttavia l'amministrazione della Mensa non fa capo ad una delle quattro Direzioni generali del Dipartimento Rami e Diritti diversi create nel 1819 nell'ambito del Ministero delle Finanze, ma deve essere considerata "come una delle Dipendenze del Ministero di Stato presso il Luogotenente Generale". Essa deve considerarsi "come ogni altra regia amministrazione". Gli impiegati devono essere considerati come quelli di tutte le altre amministrazioni finanziarie e così saranno considerati anche dopo l'unità d'Italia. Al Balsamo si deve l'impianto della struttura amministrativa. Egli infatti nomina un suo procuratore, il notaro, altri ufficiali, aiutanti, uscieri, tutti con regolare stipendio, ed anche un Pro-amministratore. Si trattava di una struttura che diverrà articolata e complessa. Oltre il personale amministrativo fisso costituito da 10 unità in organico e 10 soprannumerari, vi erano 10 avvocati e patrocinatori, 5 agenti, 3 campieri, 3 agrimensori, 3 notai, e vari altri periti, come quello per le stime delle decime sui fiori (delle olive) e dei frutti, un capomastro, un fiscale delle acque, procuratori ad esigere, etc. Sebbene però la Bolla del 1802 parlasse di ripristino totale dei beni della Mensa, la situazione reale si presenta al Balsamo in modo notevolmente diverso, perché dei 72 feudi descritti dal De Ciocchis, per una estensione di oltre 25 mila salme e con un reddito di onze 21.147, nella consegna del 1816 cioè dopo 74 anni durante i quali le coltivazioni per il reddito erano migliorate, si riscontrano numero 995 articoli di bilancio tra masserie, luoghi, terre, porzioni e pretenzioni di estensione imprecisata e imprecisabile con un reddito fittizio di onze 29.025 e con gravi passività.

Si comincia allora a constatare come dal momento della indemanializzazione dei beni della Mensa, voluta dal re Ferdinando nel 1775 si fosse avviato quel lento processo di declino che si rivelerà inarrestabile. Vi è una serie di fatti. Anzitutto né il De Giudice né il De Ciocchis davano i nomi di tutte le diverse masserie o terre nelle quali i feudi erano allora divisi; né lo Stato delle temporalità del Leone indicavano i confini, l'estensione esatta e i nomi delle terre sulle quali gravavano i canoni. Nomi che in molti casi avevano subito sostituzioni o variazioni tali da divenire irriconoscibili come è dimostrato dai recenti studi. Parte degli ammanchi erano dovuti alle distrazioni disposte dalla stessa Amministrazione regia in varie occasioni come quella della famosa Lotteria dei beni ecclesiastici disposta con i decreti del 14 Febbraio 1811. La parziale trasformazione delle antiche prestazioni in canoni fissi già operanti quando la Mensa era sotto l'Amministrazione regia e che fu sanzionata con i rescritti del 23 Dicembre 1836 e 24 Febbraio 1844, la mancanza degli atti dell'amministrazione tenuta dal Real Patrimonio, le carenze del catasto fondiario erano tutte alla base della decrescente floridezza economica della Mensa. Nei confronti dell'elenco dei feudi del De Giudice e del De Ciochis lo Stato delle temporalità non parla di ben 15 feudi e cioè Cappilleri (salme 285), Ficuzza (salme 160), Lupo (salme 270) perché compresi tra quelli che il Parlamento siciliano nel 1813 aveva assegnato alla Corona, per costituire la lista civile e che erano passati poi al Borbone; il feudo Platti (salme 100) che già non figurava tra le possessioni della Mensa al tempo dello stesso de Ciocchis; San Martino (salme di estensione imprecisata) su cui l'Arcivescovo aveva solo la recognitio Fori, Sagana (salma 150) in possesso dello stesso monastero di San Martino, Mortilli (salme 200), Sparacia (salme 420) in possesso dei Gesuiti, Bruca (salme 500 o 643), Buxesi (salme 255), Cannavera (salme 200), Cuti (salme 290), Galvagno (salme 220), Raia (salme 200), San Biagio o Terusio (salme 115), passati ad altre mani in modo sconosciuto. Ad aggravare la situazione concorre un'altra serie di fatti come l'incendio dell'archivio della Mensa del 1820 tenuto "abusivamente" scrive il Mainelli nella sua relazione, nella chiesa della Catena a Palermo. Questo porta alla distruzione dei titoli diretti a sostenere la maggior parte dei crediti tra cui quelli relativi ai feudi di Casale, Modica e Giardinazzo che rappresentavano un importante cespite.

I restauri del Duomo conseguenti all'incendio del 1811 determinano un pesante onere pari ad onze 20.000 inizialmente, e poi peseranno sul bilancio per altre notevoli somme. Altre cause ancora erano:

1) l'abolizione della feudalità (legge 2-8-1806 e regolamento 20-6-1808) con la conseguente cessazione di alcuni diritti come l'esazione delle restucciate e del paraspolo. 2) Le commutazioni in canoni fissi di tutte le prestazioni variabili già iniziate dopo la visita del De Ciochis e poi affidate alla Commissione degli strasatti in conformità del regio decreto 14-12-1836/ e 24-2-1844. 3) La censuazione dei beni ecclesiastici disposta con legge 19 Dicembre 1838 confermata poi dal Parlamento Siciliano il 19 Maggio 1848. Nonostante tutto ciò l'amministrazione dell'arcivescovo Balsamo dà risultati soddisfacenti tant'è che la Consulta di Sicilia per il quinquennio 1858-1862 cioè a più di 10 anni di distanza della morte del Balsamo è in grado di formare lo stato discusso della Mensa con un pareggio fra le rendite e le spese di ducati 71.897 pari a £.305.602,25 comprendendo fra le spese il terzo per l'avanzo patrimoniale per la restaurazione del Duomo pari a ducati 3.783 cioè £.16.077,75, come riferisce il Mainelli. Dopo l'unità d'Italia la situazione giuridica della Mensa non muta in nulla. ''Ella, Signore, è destinata a reggere un ramo importante delle pubbliche entrate", scrive da Palermo il 1° gennaio 1861 il Marchese di Torrearsa, Ministro per le Finanze Agricoltura e Commercio, all'Arcivescovo di Monreale e "Questo Ministero riconosce nell'Arcivescovo di Monreale il naturale ed il solo amministratore dei beni della Mensa dipendenti, giusta quanto venne stabilito da massime anteriori alle quali non s'intende derogare" soggiunge da Torino in una sua lettera all'Arcivescovo il Direttore Generale del Ministero delle Finanze il 9 aprile 1863. E di riscontro lo stesso Arcivescovo, il D'Acquisto, esaminando la legge di soppressione delle Corporazioni religiose del 7 luglio 1866, scrive al Ministro delle Finanze che la Mensa arcivescovile non può soggiacere a quella legge perché essa è "come una delle dipendenze del Ministero" e l'Arcivescovo riunisce in sé "la doppia qualità di Prelato e di Regio Amministratore"; egli è un "Amministratore del Governo" e la Mensa è "una delle dipendenze del Ministero". Era l'accettazione opportunistica della tesi governativa. Ed ebbe infatti ragione. Ma l'amministrazione della Mensa appartiene totalmente all'Economato Generale dei Benefici vacanti, un Ufficio preposto alla vigilanza ed al controllo dei benefici ecclesiastici affinché non fossero menomati i diritti dello Stato in materia di patrimoni ecclesiastici. L'Economato la gestisce mediante un suo Delegato, che nel 1866 assume la qualifica di "Sub-economo" nella Diocesi di Monreale. La sede dell'Amministrazione era nel Palazzo della Magione, in Palermo. Ma l'Arcivescovo, mons. Papardi, ad un certo punto, si permette una libertà. Ed allora il 17 ottobre 1879, il Ministro di Grazia, Giustizia e Culti, cui era passata la competenza, in una sua lettera a lui diretta ribadisce "l'ingerenza ed il controllo che su tale Amministrazione ha sempre, esercitato il Governo, il quale pur avendo in passato proceduto alla nomina di un pro-amministratore, tollera, per questa volta la nomina fatta dall'Arcivescovo dell'avv. Giuseppe Mario Puglia per questa carica; ribadisce l'obbligo d'uniformarsi al Regolamento di Contabilità per gli Economati Generali approvati con regio Decreto del 26 novembre 1874. Inoltre, per rafforzare la tutela, lo stesso Ministero ha destinato presso la Mensa un Controllore governativo, a carico della stessa, col compito di verificare tutto l'andamento generale e particolare "dell'amministrazione... curare l'osservanza del bilancio... apporre il suo visto a tutti i mandati di pagamento... fare rapporto al Ministero... etc.". Organo di collegamento e di controllo sarà l'Economato Generale dei Benefici Vacanti. Questi provvedimenti lasciano trasparire chiaramente che vi era bisogno di cure energiche, perché l'amministrazione della Mensa era avviata verso il baratro. La documentazione archivistica in proposito è abbondantissima. Il declino appare inarrestabile. L'incasso dei cespiti avviene con sempre maggiore difficoltà. Le passività aumentano. La Mensa viene sottoposta a tasse sempre più esose. Si susseguono leggi il cui effetto è quello di vanificare sempre più i cespiti. Così è la legge n.743 del 10 agosto 1862 sull'enfiteusi dei beni ecclesiastici; la n.1389 dell'8 giugno 1873 sull'affrancazione nelle provincie napoletane e siciliane di tutte le prestazioni di qualsiasi quantità e natura prorogata poi con una notificazione del 26 giugno 1890 per l'affrancamento delle decime feudali; la legge n.4727 del 22 luglio 1887 sull'abolizione e commutazione delle decime ed altre prestazioni fondiarie, prorogata, a sua volta con la legge n.680 del 28 dicembre 1893 ed altri provvedimenti ancora. Malgrado il frequente rinnovo e l'aggiornamento dei regolamenti interni l'amministrazione era in uno stato di confusione tale che nel 1883 l'Arcivescovo chiede al Ministero di Grazia, Giustizia e Culti che si procedesse alla verifica dei titoli e che, ai sensi dell'art.11 della legge del 24 gennaio 1864 si riluissero quei canoni che da più di dieci anni gli enfiteuti avessero pagato parzialmente, sciogliendo la comunione. Alcuni cespiti vengono addirittura abbandonati, come quello della tonnara di Isola delle Femmine.

La documentazione dello stesso Fondo Mensa ci dà testimonianza degli sforzi fatti per fronteggiare il dissolvimento: si cercava di ottenere economie con la riduzione di personale che scendeva sotto le 10 unità. Pur se con tante difficoltà, agli inizi di questo secolo, la Mensa aveva entrate pari a £.277.090,43, corrispondenti a £.1.203.606.900 del 1989. Ma erano tali e tanti gli oneri che restavano appena £.734,41, pari a £.3.188.300 per i restauri del Duomo. Era il quasi totale allontanamento dai fini istitutivi! E come può anche vedersi dal documento che segue, Monreale non era più in testa alle Diocesi siciliane per il suo reddito. Uno dei casi macroscopici del degrado amministrativo era la pessima gestione delle acque sgorganti dalle numerose sorgive a monte della Conca d'Oro, di proprietà della Mensa e dalle quali in passato ricavava notevoli entrate. I numerosi interventi del Controllore governativo in proposito non producono altro vantaggio che una serie interminabile di polemiche e di vertenze giudiziarie. La gravissima situazione finanziaria si tinge di giallo quando il ragioniere capo della Mensa, Antonino Fumagalli, parente dell'avv. Puglia, viene accusato di aver sottratto denaro e titoli alla Mensa, mentre egli con molta protervia avanza la proposta di essere incaricato di risanare il bilancio, essendo il solo capace di conoscere i meandri amministrativi, purché gli si dia la metà degli incassi degli arretrati. A Roma fioccano i ricorsi anonimi. Il Ministero Grazia Giustizia e Culti, Finocchiaro Aprile nel 1913 invia un Ispettore Superiore, L. Frezzini, che compila una precisa relazione. "L'antica e costante poca cura del patrimonio, egli riferisce, ha permesso che si liquidassero a danno del patrimonio stesso, vari canoni, come prevede l'art.2137 del Codice civile. Tuttavia il patrimonio non corre grave pericolo, a condizione che si provveda subito ad un riordinamento generale dei titoli di proprietà e di credito. In conclusione quindi può dirsi, a mio credere, che le condizioni patrimoniali della Mensa, pur essendo in istato di peggioramento continuo, non sono ancora cattive. Pessime invece sono le condizioni finanziarie". Dopo aver fatto gravi rilievi per la mancata compilazione del bilancio 1913 egli studia le cause del dissesto. Tra queste ricorda la diminuzione della rendita pubblica, le affrancazioni in consolidato, l'aumento delle imposte e delle tasse, l'aleatorietà delle gabelle delle acque che si esigono solo quando abbia piovuto in abbondanza, il mancato pagamento, per giudizio pendente, dei grossi canoni del Comune di Piana dei Greci e della Principessa di Carini, ma "all'amministrazione stessa e non, come essa vorrebbe, alla specialità del patrimonio, deve imputarsi indubbiamente una delle cause principali, da me accertate, nel ritardo delle esazioni e cioè il non essere al corrente lo stato patrimoniale della Mensa, tanto che per avvenuti passaggi di proprietà, divisioni e succoncessioni di terre e di canoni, non s'è più in grado di sapere esattamente per molte delle partite di credito, che sono oltre 1600, chi sia il vero debitore, non solo, ma in alcuni casi neppure su quali terre gravi effettivamente in tutto o in parte il canone... Si tratta dunque... di vero e proprio cattivo funzionamento dell'amministrazione".

Dopo il 1802, egli continua, l'amministrazione viene restituita all'Arcivescovo il quale è tenuto a servirsi d'un pro-amministratore e d'impiegati tutti di nomina governativa. Egli deve sottoporre i bilanci e i rendiconti all'approvazione delle Autorità regie. In pratica sotto il governo borbonico l'amministrazione era organizzata come amministrazione pubblica e l'Arcivescovo ne era il capo nominale od onorario. Dopo l'unità d'Italia la situazione non muta, sino però al 1879 quando il Governo rinunzia, in fatto non in diritto, alla nomina del pro-amministratore e, fermo il resto, si nomina il Controllore regio. Mentre pertanto l'Arcivescovo diviene amministratore di fatto, non ha alcun potere sui dipendenti, di nomina regia. Il Controllore governativo poi non ha alcun potere promozionale, ma solo di controllo a posteriori: siamo in presenza di una organizzazione che non è più quella di una vera amministrazione pubblica, ma non è neppure quella d'un azienda privata. E' curioso poi che l'Arcivescovo è anche capo di quasi tutti gli Enti pubblici assegnatari della Mensa. L'organizzazione non stimola il senso della responsabilità, né suscita alcun interesse economico verso la buona gestione. Tutto l'apparato amministrativo è formato da 25 persone: l'Arcivescovo, il suo delegato amministratore, 6 impiegati amministrativi, il controllore governativo, 3 avvocati con assegno fisso, 8 agenti subalterni, 5 procuratori locali, tutti a carico della Mensa. Ma l'Arcivescovo ha una congrua fissa, senza risentire degli incrementi o dei decrementi delle rendite della Mensa; gli impiegati sono mal retribuiti e senza speranza di carriera, abituati a considerare lo stipendio come una elargizione e non come retribuzione di lavoro, l'orario d'ufficio di 3 ore, dalle 12 alle 15 è tale che richiede continui straordinari, spesso negati; i procuratori, pagati ad aggio, si limitano ad incassare solo quei censi più vantaggiosi per loro e lasciano cadere gli altri; le procedure giudiziarie mirano a salvaguardare le rendite anziché il capitale. A tutte queste cause si aggiungono le condizioni personali dei singoli preposti all'amministrazione: l'Arcivescovo, mons. Lancia di Brolo, pure stimato e venerato da tutti e avendo raggiunto l'età di 90 anni, quasi cieco, è del tutto incapace di occuparsi di una azienda la cui amministrazione sta a Palermo, può appena firmare (ammesso che la firma sia sempre sua). "E’ come se non vi fosse" scrive sempre il Frezzini. "Il suo delegato ad amministrare, il cav. Pandolfini, 72 anni, è sembrato a me incapace non solo di dare, come occorrerebbe, un nuovo indirizzo all'amministrazione, ma anche di sorvegliarne attivamente l'andamento attuale... ". Il ragioniere capo, sig.Fumagalli, "espertissimo nelle cose della Mensa" è "occupato in speculazioni poco fortunate, oltre che negli affari della Mensa" e promotore della tesi avanzata al Ministero che gli impiegati devono considerarsi governativi; l'archivista capo il cav. Bozzo è capo della Divisione 0pere Pie del Comune di Palermo; il suo aiutante insegna in un ginnasio di Palermo; tutti gli altri addetti, chi per un motivo chi per un altro poco o nulla fanno, tranne che percepire gli stipendi, pur non troppo allettanti. In altri termini il dissesto è imputabile alla difettosa amministrazione, affidata all'Arcivescovo. Sarebbe stato meglio se l'Amministrazione fosse tornata in mano pubblica, perché la Mensa aveva natura di Azienda pubblica. Era la tesi cui si opponeva, con passione convinta il Millunzi che due anni dopo pubblicherà una monografia per sostenere che la Mensa era e doveva essere quel beneficium majus ecclesiasticum, col quale re Guglielmo II il Normanno dotò la sua chiesa di S. Maria Nuova e in vista del quale papa Lucio III nel 1183 vi eresse l'officium archiepiscopale. Ma le due tesi dovranno fare i conti con l'inflazione che nei decenni successivi, come vedremo, renderà vane le rendite monetarie. Intanto, in conseguenza della relazione Frezzini, il Ministro di Grazia, Giustizia e Culti dispone il "sequestro per misura di conservazione e di tutela della Mensa arcivescovile di Monreale, ai termini dell'art.19 del Regolamento per gli Economati generali dei benefici vacanti, approvato con R. Decreto del 2 marzo 1819 n.64". Ma le risultanze del sequestro non appaiono brillanti, a causa delle carenze quantitative e qualitative del personale, la cui situazione appare in condizioni di assoluta inefficienza e disaffezione. Il provvedimento più importante, subito dopo il sequestro è il trasferimento a Monreale dell'amministrazione della Mensa, avvenuto nello stesso 1913 per evitare l'onere dell'affitto dei locali: era l'ultimo piano del palazzo Villafranca in Piazza Bologni. La gestione è sempre in mano dell'Economo Generale Benefici Vacanti. L'incarico di mettere ordine nell' archivio, di fare anche un esatto inventario dei titoli e di accertare se le denunzie di sottrazioni di essi a carico del Caporagionere Fumagalli, viene dato nel 1915 dalla Procura Generale del Re presso la Corte d'Appello di Palermo, al cav. Giovanni Mainelli, già Segretario della stessa Procura e da recente promosso a Segretario di Procura Generale di Corte di Cassazione. Il Mainelli lavora con scrupolo e dedizione, affiancato dal can. Gaetano Millunzi, al quale intanto era stato affidato l'archivio, dopo la rinunzia del Fumagalli. Della relazione Mainelli parlerò a proposito dell'Archivio. Qui occorre subito notare che il Mainelli pure se andando oltre i limiti assegnatigli e attirandosi per questo le censure dell'Economo Generale dei Benefici Vacanti, ci ha lasciato un quadro assai preciso della Mensa a quell'epoca. Malgrado le poco felici, vicende alle quali abbiamo accennato, l'attivo della Mensa, al 1915 ascendeva a £.242.172,61, pari a £.859.843.800 del dicembre 1989 ed il passivo a £.241.743,20, pari a £.853.484.300 dello stesso momento. Ma poco dopo le rendite pecuniarie in Italia dovranno misurarsi con l'inflazione del primo dopoguerra: la lira, dal 1915 al 1920 subisce una perdita del 103,05% ed il bilancio della Mensa, al 1920 presenta un attivo di £.234.299,39, pari a £.254.795.030 ed un passivo di £.282.126.570, sempre del dicembre 1989. Cessato il periodo del sequestro ed essendo venuto a mancare il vecchio arcivescovo Lancia di Brolo, il nuovo arcivescovo mons. Antonio Augusto Intreccialagli apre delle trattative che si protrarranno per parecchi anni 'per arrivare ad un risanamento finanziario della Mensa, per raggiungere il quale il Ministero aveva decurtato o soppresso alcuni oneri.

Finalmente con nota del 31 maggio 1922, il Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto dispone che col 1 gennaio del 1923 l'Economato procedesse alla "riconsegna" dell'amministrazione della Mensa, senza alcuna limitazione o riserva all'Arcivescovo considerato quale "unico amministratore responsabile" sempre però sotto la vigilanza dello stesso Ministero. La Mensa, secondo lo stesso Ministero aveva una "speciale costituzione" per cui solo £.45.236 (le antiche onze 4000 al netto delle imposte) formavano la dotazione del Beneficio arcivescovile, mentre le altre entrate erano destinate a quei fini particolari determinati dalle bolle di Benedetto XIV del 1752 e 1753, cioè le pensioni Asturie, e da quella di Pio VII del 1802 nonché dai decreti di Ferdinando II del 1833 e del 1842 relativi al finanziamento dei restauri gestiti dall'apposita Deputazione del 1817. Per questo il controllo governativo. All'Intreccialagli viene fatto obbligo di compilare un regolamento di gestione. Ma non se ne fa nulla. Egli piuttosto si adopera con grande impegno per il risanamento finanziario della Mensa ed ottenute le consegne affida la gestione al pro-Amministratore avv. Antonio Rubino, il quale aveva già dato prova positiva di onestà e di correttezza. Dal 1923 in poi la gestione si svolge in modo regolare e così prosegue anche dopo la morte dell'Intreccialagli, quando l'amministrazione ritorna nelle mani dell'Economo Generale Benefici Vacanti, ma con gestione separata dalle altre di competenza. Questa situazione si protrae fino al 1926 quando l'amministrazione viene riassunta, dietro sua richiesta, da mons. Ernesto Eugenio Filippi, poco dopo la sua nomina ad Arcivescovo di Monreale. La Mensa intanto presentava un certo miglioramento: l'attivo era di £.382.603,56 pari a £.283.689.320 ed un esito di £.283.981,65, pari a £.210.564.070 vi era dunque qualche margine. Inoltre, nel 1925 con decreto regio era stata soppressa la Deputazione dei Restauri e, pertanto, era venuto meno l'obbligo di destinare gli avanzi ai restauri del Duomo. Il Filippi si adopera per incrementare le entrate che nel 1930 ascendono a £.435.755,94, pari a £.387.616.270, mentre le uscite rimangono contenute in £.248.527.35, pari a £.221.070.990. Invano però egli si adopera per alleggerire la Mensa dell'onere della pensione Asturia, che malgrado la soppressione dell'Economato Generale dei Benefici Vacanti, avvenuta per effetto del Concordato del 1929 non aveva sottratto la Mensa al controllo statale. Il Filippi riesce a mala pena a mantenere la situazione del 1930: nel 1938 la Mensa infatti ha un attivo di £.375.948,26 pari a £.331.337.710 ed un esito di £.331.930, 75, pari a £.292.543.380. Credo che l'ultima grossa entrata della Mensa sia stata quella del 1939, dovuta alla risoluzione del contratto enfiteutico delle neviere del feudo Realcelsi, a monte della Conca d'oro, stipulato nel 1765 con il Comune di Palermo. A conclusione infatti delle procedure esecutive contro il Comune di Palermo iniziatesi nel 1932, per il mancato pagamento del canone, inizialmente fissato in onze 600, la Mensa accede ad una transazione, accettando la retrocessione del fondo obnoxio nelle condizioni in cui esso si trovava e l'indennizzo di £.130.000, pari a £.109.727.520. Ma un'altra violentissima bufera si scatena sui redditi monetari prima a causa del conflitto etiopico e poi della seconda guerra mondiale. Infatti dal 1935 al 1940 la lira perde il 41,32% del suo valore, dal 1940 al 1945 il 194,13%. Malgrado le numerose leggi di rivalutazione dei canoni, la Mensa, al 1949 presentava un introito di £.360.134,70 pari a £.6.278.475 ed un esito a pareggio. Nel 1978 l'attivo era di £.1.315.161, pari a £.4.367.518 ed il passivo di £.1.070.669 pari a £.3.555.55, con un netto pertanto di £.811.967, che sarebbero pari a £.243.590 del 1989 se si considera che dal 1978 al 1989 la lira ha perso il 30% del suo valore. Malgrado quindi le numerose leggi di rivalutazione dei canoni, la Mensa era avviata definitivamente verso la totale vanificazione. L'estinzione giuridica definitiva avviene con decreto dell'Arcivescovo di Monreale del 18 ottobre 1985 di erezione in persona giuridica dell'Istituto di Sostentamento per il Clero ai sensi della legge n.222 del 20 maggio 1985, di applicazione delle norme concordatarie del 1984 sugli enti ed i beni ecclesiastici in Italia. L'art.28 di detta legge stabilisce che "con il decreto di erezione di ciascun Istituto sono contestualmente estinti la mensa vescovile, i benefici capitolari, parrocchiali comunque denominati, esistenti nella diocesi e i loro patrimoni sono trasferiti di diritto all'Istituto stesso... ". Probabilmente, l'inconsistenza del patrimonio della Mensa a quel momento non ha più alimentato la polemica più che secolare sulla natura di essa.

 

La struttura documentaria

L’incontro con questo fondo archivistico non è stato facile per le condizioni in cui esso si trovava. Molte delle unità ad esso appartenenti erano confuse insieme con quelle degli altri fondi archivistici, pur se l’amministrazione della Mensa, in funzione sino a qualche decennio addietro, aveva cercato di separare l’archivio della Mensa dagli altri Fondi dell’archivio dell’arcivescovado. Negli ultimi anni poi una parte dei registri era stata staccata dal resto, ritenuto inutile ai fini pratici. E’ probabile che qualche registro e qualche busta siano rimasti addirittura fuori, perché non reperiti. L’assemblaggio infatti è avvenuto nel corso dei lavori.

Nella compilazione del presente indice ho seguito l’inventario del Mainelli, segretario di Procura Generale di Corte di Cassazione, controllando e verificando rigorosamente la documentazione, indicando gli ammanchi o altri elementi utili alla ricerca. Ho ripristinato la funzionalità dell’indice analitico. Ho inventariato la documentazione successiva al Mainelli seguendo le stesse linee strutturali e, in appendice ho aggiunto l’elencazione di quella documentazione che, pur essendo precedente al 1915, non era stata inclusa nell’indice del Mainelli. Ho applicato a tutte le unità del Fondo una numerazione progressiva continua, per facilitare la ricerca e la ricollocazione delle varie unità. Poiché ho seguito l’indice del Mainelli, ho preferito lasciare integra la numerazione, anche nel caso raro che qualche unità fosse mancante, come anche l’indice del 1915 segnala.

La documentazione è divisa in tre classi:

  •           Classe I: titoli e atti giudiziari, articolata in 5 serie.
  •           Classe II: corrispondenza, articolata in 8 serie.
  • Classe III: contabilità, articolata in 25 serie.